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GHIACCIAIO DELLA VENTINA

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Benvenuti a Chiareggio. Da qui, con una breve deviazione, è possibile ammirare il Ghiacciaio della Ventina, localizzato alla testata dell’omonima valle, nel tratto terminale dell’alta Valmalenco. La deviazione prevede un percorso di circa un’ora di cammino lungo una mulattiera che conduce al Rifugio Gerli-Porro del CAI Milano, dal quale parte il sentiero didattico “Vittorio Sella”, itinerario naturalistico-glaciologico realizzato dal Servizio Glaciologico Lombardo.La cornice montuosa che ospita il ghiacciaio è di grande valore paesaggistico, tra le cime il Monte Disgrazia, che sfiora i 3700 m di altitudine, un nome che non rispecchia il fascino e la spettacolarità della montagna, denominata all’inizio dell’800 “Pizzo Bello”.Il Ghiacciaio della Ventina tra gli apparati lombardi può vantare una delle più lunghe serie di misure e osservazioni scientifiche: i primi rilievi finalizzati a quantificare le variazioni di posizione della fronte glaciale risalgono infatti alla fine del 1800. Lungo il sentiero sono evidenziati i vari segnali che indicano i punti di misura.Dal rifugio si osserva un paesaggio di grandissimo interesse, modellato dall’erosione dei ghiacciai e in tempi più recenti dall’azione dei torrenti e dei cicli gelo-disgelo, in particolare:- il profilo trasversale a “U” del settore superiore della valle, segno evidente dell’erosione del ghiacciaio che la occupava;  - l’imponente cresta della morena laterale in destra idrografica, che con le sue dimensioni testimonia lo spessore del ghiacciaio che l’ha edificata durante la Piccola Età Glaciale, il periodo di generale avanzata dei ghiacciai fra il 1550 e il 1850;- le cosiddette rocce montonate, dall'aspetto liscio e arrotondato, modellate dal ghiacciaio durante la sua avanzata, e lasciate scoperte con il suo regresso, localizzate nel tratto centrale dell’incisione valliva;- la piana antistante il ghiacciaio, dove il torrente crea meandri regolari e dove la vegetazione anche arborea, in prevalenza larici, è ormai ben sviluppata.Il Ghiacciaio della Ventina ha visto la sua massima espansione storica verso la fine della Piccola Età Glaciale, cioè verso la metà dell'Ottocento del secolo scorso. In questo periodo il ghiacciaio occupava buona parte della valle e si spingeva fin verso quota 2000 m, quasi 400 metri più in basso rispetto alla fronte attuale, poco a monte del Rifugio Ventina. In quel periodo nella zona dove ora troviamo la fronte, il Ghiacciaio della Ventina si univa alla lingua del Ghiacciaio del Canalone della Vergine, oggi anch’esso in vistoso ritiro, con la fronte arroccata 400 m più in alto.Dopo la Piccola Età Glaciale, il Ghiacciaio della Ventina cominciò una fase quasi continua di regresso che ha portato la sua fronte ad arretrare in totale di circa un chilometro e mezzo, modificando sensibilmente il paesaggio osservabile dal Rifugio Gerli-Porro. Il suo regresso è stato interrotto da brevi fasi di avanzata fra il 1915 e il 1921 e soprattutto fra il 1973 e il 1989. Dopodiché il regresso riprese con ritmi ancora più accelerati, adeguandosi alla tendenza di quasi tutti i ghiacciai montani della Terra: si pensi che negli ultimi quarant’anni il Ghiacciaio della Ventina ha perso circa un quarto della sua superficie, che attualmente è di poco meno di 2 chilometri quadri. È chiaro che i cambiamenti climatici in atto non possono che accelerare la sua involuzione e le proiezioni ottenute dai ricercatori con modelli basati sugli scenari climatici attesi suggeriscono che per la fine di questo secolo si possa arrivare alla sua quasi completa scomparsa!Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.
LE MARMITTE DEI GIGANTI DI MAIESSO

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Nell'ultimo milione di anni le Alpi sono state interessate da 4 glaciazioni, cioè periodi di forte espansione dei ghiacci. L'ultima di esse, chiamata "glaciazione Wurmiana", è durata da 75.000 a 8.300 anni fa. Durante questa glaciazione la Valle Antigorio e Formazza era occupata dall'esteso ghiacciaio del Toce, spesso oltre 1.300 metri, che più a valle si univa con i ghiacciai che scendevano dalle altre valli dell'Ossola. Lo strato di ghiaccio era così spesso che solo le cime più alte emergevano. Una simile massa di ghiaccio ha avuto un ruolo importantissimo nel "disegnare" le attuali forme del paesaggio: i ghiacciai infatti svolgono un'importante azione di erosione, di modellamento, di trasporto e di deposizione. Osservando le ripide pareti che circondano il paese di Premia si riconosce il tipico profilo trasversale a forma di "U", ben diverso da una valle originatasi solo per erosione fluviale che presenta invece una sezione a forma di "V". Un altro segno inconfondibile della antica presenza del ghiacciaio è l'elevato grado di arrotondamento delle bastionate rocciose e del gradino roccioso di Premia (chiamato sulla carta con il toponimo "Sasso di Premia"). Le rocce lisciate e striate dall'azione di modellamento del ghiaccio prendono il nome di "rocce montonate".In località Maiesso, lungo il percorso di visita degli Orridi di Uriezzo, un ponte di ferro sul Fiume Toce rappresenta uno straordinario punto di osservazione sulle Marmitte dei Giganti. In questo breve tratto di valle l'imponente azione di modellamento e di erosione operata dai ghiacciai e dai torrenti del passato si è spinta a tal punto da oltrepassare le rocce (micascisti a granato) che costituiscono il gradino di Premia e incidere, mettendola in luce, la roccia sottostante (gneiss granitoide), biancastra e microcristallina, che contrasta cromaticamente con i sovrastanti micascisti bruno-grigiastri. La particolarità di questa roccia (comodamente osservabile proprio dal ponte di Maiesso) consiste nel fatto che rappresenta l'elemento tettonico più profondo conosciuto, il cosiddetto "Elemento Zero", dell'intero edificio alpino: in tutte le Alpi affiora solo nella zona di Verampio, dove la Valle di Devero confluisce nella Valle Antigorio e presenta una forma a cupola, tanto che viene anche definito "Cupola di Verampio".Dal ponte di Maiesso si possono osservare le caratteristiche cavità emisferiche o cilindriche incise sull’alveo roccioso del Fiume Toce. A queste formazioni, talvolta somiglianti a enormi scodelle, la fantasia dell’uomo ha attribuito il nome di “marmitte dei giganti”. Si sono formate principalmente ai tempi delle glaciazioni, causate dalla forza erosiva dei torrenti che scorrevano ad altissima pressione al di sotto del ghiacciaio (torrenti subglaciali). L’acqua che scorre al di sotto di un ghiacciaio può formare rapidi vortici, scorrendo con velocità anche superiori a 200 km/h, e le sabbie, i fini limi, ed i detriti trasportati, roteando e graffiando la roccia, come potenti trapani scavano e approfondiscono queste cavità tondeggianti, dalle pareti levigate.In tutta la zona della valle Antigorio si riscontrano numerosi esempi di marmitte dei giganti. Quelle che si possono osservare a Maiesso sono ancora forme attive, percorse ancora dall’acqua del Toce. Altre invece sono state originate anche da corsi d'acqua subglaciali, che dopo il ritiro dei ghiacciai sono scomparsi, e pertanto si possono incontrare anche molto lontane dagli attuali torrenti. Questo per esempio si verifica percorrendo la mulattiera che da Verampio sale a Baceno, dove si incontra una grande marmitta semisepolta di circa 10 metri di diametro, attraversata dalla mulattiera.Anche se le magnifiche pozze d’acqua di Maiesso invitano in estate a bagni rinfrescanti si raccomanda caldamente di non lasciarsi tentare. Purtroppo la bassa temperatura dell’acqua, la presenza di tratti molto scivolosi e di gorghi sono stati causa di alcuni incidenti purtroppo letali.
DENTI DELLA VECCHIA (LUGANO)

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Dal crinale che chiude a meridione la Val Colla, appena dopo la cima di Fojorina si stacca verso SW una cresta che dal Passo di Pairolo scende sino al Monte Boglia, delimitando verso meridione la valle del torrente Dino.Essa culmina nei 1490 m del Sasso Grande, cima principale di un frastagliato gruppo di arditi pinnacoli e torrioni dolomitici, che sorgono come denti sgangherati dalla sommità del versane boscato: i Denti della Vecchia, appunto, secondo una tradizione locale ormai consolidata dalla toponomastica ufficiale.Col loro aspetto singolare, essi costituiscono uno dei più caratteristici crinali del Luganese.Una grande fagliaTutto il versante sinistro della valle del Dino, e poi oltre Pairolo, del Cassarate, è di estremo interesse per la geologia, e come tale è stato proposto e valorizzato come geotopo, il termine con cui nell'ordinamento svizzero vengono designati i geositi.Lungo esso, infatti, decorre la Linea della Grona, un'estesa faglia con orientamento ENE-WSW che dalla Grona di Menaggio, attraverso il Passo di San Lucio e il Passo di Pairolo, arriva sino al Monte Boglia, ove è tagliata da un'altra importante faglia, la Linea di Lugano.La Linea della Grona pone in contatto tettonico il basamento cristallino sudalpino a settentrione - la cosiddetta "zona della Val Colla" - con la successione sedimentaria triassica a meridione, e delimita alla base, attorno a q. 850 m s.l.m., il paesaggio delle rocce carbonatiche, tipico del crinale dei Denti della Vecchia.Le rocce del CarboniferoL'intorno della faglia è caratterizzato da rocce fittamente frantumate, a causa del movimento dei due blocchi lungo essa; inoltre qua e là, nel loro scorrimento laterale, sono rimasti impigliati alcuni brandelli di rocce sedimentarie anteriori al Triassico, in particolare delle arenarie e siliti nerastre, ricche di materia organica, datate al Carbonifero.Si tratta di uno dei lembi di rocce sedimentarie più antiche di questo settore delle Prealpi, arricchito dalla presenza dei numerosi resti fossili di una flora ormai estinta, vecchia di più di 300 milioni di anni.Oltre agli affioramenti ai piedi dei Denti, presso la Capanna Pairolo - e a quelli italiani della Val Sanagra e dell'Alpe Logone - un altro lembo ben esposto è visibile presso Manno: qui addirittura sono riconoscibili in rilievo sulla roccia due grandi tronchi fossili; per questo motivo, anche gli affioramenti di Manno sono tutelati come geotopi.La dolomia dei DentiA sud della linea della Grona, il versante taglia tutta la successione di calcari e marne del Triassico, sino alla potente bancata della Dolomia Principale, che "chiude" il periodo.Roccia massiccia e facilmente fratturabile nel corso dei movimenti tettonici, essa si offre qui a una facile erosione, che ne ha modellato il fantastico paesaggio di guglie e strette fessure, oggi un vero paradiso per l'arrampicata sportiva.Gli habitat protettiAi suoi piedi, si estendono fitte faggete di tipo particolare per le associazioni vegetali che le caratterizzano, tra cui la rara faggeta ad agrifoglio, affiancate qua e là da plaghe a quercia e castagno, e da ampie distese di prati aridi tipici dei suoli calcarei, dominati da Poacee - più note con la vecchia definizione di graminacee -quali la Sesleria e il Bromus erectus o forasacco; qua e là essi appaiono punteggiati dai fiori del Citiso insubrico (Cytisus emeriflorus), un arbusto presente in questa regione solo sotto i Denti della Vecchia.Salendo, queste formazioni boscose e prative lasciano il passo, sui pendii più scoscesi, a isolate mughete a erica, in cui il pino mugo nella sua forma arborescente rappresenta un unicum per la regione.Le rupi con i loro anfratti e i limitati ghiaioni offrono invece rifugio a specie pioniere, capaci di sopravvivere in questo ambiente estremo; anche fra queste, molte appaiono uniche in Svizzera e rare in tutta la zona insubrica, quali la Peverina di Carinzia (Cerastium austroalpinum) e le sole popolazioni svizzere di Aquilegia di Einsele (Aquilegia einseleiana) e di Salice glabro (Salix glabro).Questa ricchezza floristica, che rende variopinti i versanti e fa risaltare ancor di più il nitore della dolomia, addolcisce e completa il paesaggio ruiniforme dei Denti, rendendolo unico per i contrasti accentuati di luci e di colori, soprattutto durante l'autunno, quando via via ogni tonalità si tramuta nelle più incredibili sfumature di giallo e arancio, senza intaccare il verde intenso dei mughi abbarbicati alle rocce.
GLI ORRIDI DI URIEZZO

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Il tratto di Valle Antigorio compreso tra i comuni di Premia, Baceno e Crodo è, dal punto di vista geologico e morfologico, di straordinario interesse e spettacolarità: in meno di 3 km il Fiume Toce scende di 160 metri, incidendo profondamente la barra rocciosa di Premia, ultimo brusco "gradino" morfologico della Valle Antigorio (un altro caratteristico gradino è, più a monte, quello che origina la Cascata del Toce). In questo breve tratto di valle l'imponente azione di modellamento e di erosione operata dai ghiacciai e dai torrenti del passato ha lasciato segni così grandiosi e complessi, e insieme così evidenti, come raramente nelle Alpi si possono trovare. L'azione erosiva si è spinta a tal punto da oltrepassare le rocce (micascisti a granato) che costituiscono il gradino di Premia e incidere, mettendola in luce, la roccia sottostante (gneiss granitoide), biancastra e microcristallina, che contrasta cromaticamente con i sovrastanti micascisti bruno-grigiastri. La particolarità di questa roccia (comodamente osservabile in località Maiesso) consiste nel fatto che rappresenta l'elemento tettonico più profondo conosciuto, il cosiddetto "Elemento Zero", dell'intero edificio alpino: in tutte le Alpi affiora solo nella zona di Verampio, dove la Valle di Devero confluisce nella Valle Antigorio e presenta una forma a cupola, tanto che viene anche definito "Cupola di Verampio".Il risultato più affascinante dell’azione erosiva sono i cosiddetti “Orridi di Uriezzo”, profonde incisioni in roccia scavate da energiche cascate, in arretramento progressivo, facenti parte dell'antico sistema di torrenti che scorrevano sul fondo del ghiacciaio che percorreva anticamente la valle Antigorio. Successivamente, con il ritiro dei ghiacciai, l'andamento della locale rete idrografica si è sensibilmente modificato: la peculiarità degli orridi di Uriezzo consiste proprio nel fatto che il torrente che li ha modellati ora non percorre più queste strette incisioni, pertanto è possibile camminare agevolmente all'interno di esse.Gli orridi visitabili sono tre, denominati Orrido Sud (il più spettacolare, lungo circa 200 m e profondo da 20 a 30 m), Orrido Nord-Est (lungo circa 100 m e profondo una decina, molto stretto in alcuni punti) e Orrido Ovest (meno caratteristico, formato da due tratti distinti). Un quarto orrido, che prende il nome di Vallaccia, si trova poco sotto la chiesa di Baceno ma è difficilmente accessibile e termina con un salto sul torrente Devero. Gli orridi sono contraddistinti da una serie di grandi cavità subcircolari separate da stretti tortuosi cunicoli. Le pareti sono tutte scolpite da nicchie, volute, scanalature prodotte dal moto vorticoso e violento di cascate d'acqua e in certi punti si avvicinano tanto che dal fondo non permettono la vista del cielo. La roccia entro cui sono stati scavati sono i micascisti a granato, ricchi di lenticelle pieghettate di quarzo biancastro che, essendo più duro rispetto alla roccia circostante, si presenta spesso in rilievo (erosione selettiva). Il fondo roccioso non è purtroppo visibile, perchè mascherato da materiale alluvionale e da uno strato di terriccio.Anche lungo la profonda gola della Toce sono visitabili punti di straordinario interesse come l’Orrido di Arvera, in corrispondenza del ponte della strada per Crego e l’Orrido di Balmasurda, poco più a valle, dove un ponte metallico con piano di camminamento in grigliato offre la possibilità di una visita dalle forti emozioni.Per la visita agli Orridi di Uriezzo è disponibile, presso gli uffici turistici locali, un pieghevole con carta dei percorsi consigliati. Il periodo migliore per la visita è la primavera (aprile-maggio) e l’autunno. Sono invece da evitare i mesi invernali per il rischio di caduta di ghiaccio dall’alto.Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.
MONTE DI CASLANO (CASLANO)

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All'estremo occidentale del Ceresio, fra Caslano e Ponte Tresa, il lago è come strozzato da un'isolata piramide triangolare, il Monte Caslano, che con i suoi 526 m di quota si staglia sulla retrostante piana della Magliasina. Sondaggi nel sottosuolo di quest'area hanno mostrato che poco meno di 10000 anni fa, durante l'ultima deglaciazione, lo specchio lacustre si estendeva sino a qui, mentre il Monte Caslano era una vera e propria isola; solo successivamente, il torrente Magliasina ha colmato con i suoi detriti questo tratto del bacino, edificando il proprio delta e saldando così il Caslano alla costa.Il Monte Caslano concentra in poco spazio un riassunto della storia geologica dell'intero Sottoceneri: qui infatti la successione di rocce affioranti si presenta nettamente inclinata verso meridione, cosicché spostandosi lungo i sentieri da nord verso sud si attraversa dapprima la fascia di rocce più antiche, per poi spostarsi agevolmente - fra la cima e il versante meridionale - via via verso strati più recenti.Alla base del versante nordorientale affiorano rocce del basamento cristallino profondamente metamorfosate già durante l'orogenesi ercinica, fra 395 e 225 milioni di anni fa: filladi e gneiss ricchi in quarzo e minerali silicatici, derivati da sedimenti antichi di oltre 500 milioni di anni e ormai irriconoscibili.Sopra questi, appoggiano ridotti lembi di arenarie e conglomerati di origine fluviale, che racchiudono lenti di argilliti carboniose, ricche di vegetali risalenti al Carbonifero. Per la loro antichità, queste rocce sedimentarie appaiono molto rare lungo tutto l'arco alpino; in questa zona si trovano lungo un allineamento a partire dalla Val Colla, e in particolare a Manno, ove sono stati trovati spettacolari fossili di tronchi, unici nel loro genere.Questo ambiente di foresta tropicale solcato da lenti fiumi viene sconvolto alla fine dell'Era Paleozoica, nel Permiano, da estese colate vulcaniche, talora con attività esplosiva: ne è testimonianza l'estesa fascia di porfidi chiari e di porfiriti violacee che caratterizza alla base il versante nordoccidentale del monte.Sopra essi, sempre lungo i versanti settentrionali, ricompaiono sedimenti di piana alluvionale: conglomerati e arenarie rosse del Verrucano, che passano verso l'alto a arenarie e siltiti giallastre: si tratta di depositi di ambiente costiero, antiche sabbie e sabbie fini deposte a bassa profondità in un mare che, all'inizio dell'Era Mesozoica, da oriente sta via via sommergendo tutta l'area prealpina.Avvicinandosi alla vetta del Caslano, il paesaggio muta poi bruscamente: un costone roccioso scosceso attraversa i due versanti, mettendo in luce una successione di dolomie grigie in banchi o massicce; si tratta di depositi carbonatici formatisi in un mare tropicale di 240 milioni di anni fa, poco profondo e ricco di vita: coralli, briozoi, alghe spesso riconoscibili solo al microscopio. Tutto il versante meridionale, sino al lago, è costituito esclusivamente da queste rocce, note come Dolomia del San Salvatore, dal vicino monte omonimo.Durante l'orogenesi alpina, l'intera successione è stata sollevata e inclinata, fratturandosi durante questi movimenti; anche da lontano è ben visibile la netta parete rocciosa che sembra affettare il monte: è una faglia, cioè un piano di origine tettonica lungo il quale le due parti si sono mosse l'una rispetto all'altra.La piramide del Caslano è stata poi modellata nel Quaternario dalle ripetute avanzate del ghiacciaio del Ticino; i depositi glaciali dell'ultima glaciazione ne ammantano tutt'oggi la cima e i versanti meno acclivi.La gran varietà di rocce presenti - rocce silicee che danno luogo a suoli acidi, e rocce carbonatiche che originano suoli neutri o basici - e la diversa esposizione dei tre versanti fanno sì che il Monte Caslano appaia anche come un variegato mosaico di coperture vegetali diverse.Sui terreni più acidi dei versanti settentrionali, ad esempio, prospera il bosco di Tiglio e Faggio, mentre i suoli dolomitici del versante meridionale ospitano associazioni a Carpino bianco e Carpino nero, con uno strato arbustivo ricco di nocciolo e pungitopo.Sul pianoro sommitale, infine, ammantato da depositi glaciali, con suoli estremamente acidi, domina il Castagno, con qua e là chiazze di Betulla, Rovere e Roverella.In totale, il monte ospita almeno 600 specie di piante superiori, oltre a 150 specie diverse di muschi e di epatiche: una ricchezza di associazioni vegetali, talvolta rare, che ha fatto sì che l'intera area venisse inserita nell'inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali di importanza nazionale, e successivamente tra le zone di interesse naturalistico cantonale, allo scopo di tutelarne la biodiversità.Questi ambienti particolari, e le rocce che ne permettono la sussistenza, sono facilmente riconoscibili seguendo il sentiero ad anello che da Caslano, in senso antiorario, porta sin sotto la vetta, snodandosi attraverso 15 punti di osservazione, dotati di pannelli illustrativi degli elementi più salienti presenti.
GEOSITO DI BARD

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Presso il geosito di Bard è possibile osservare diversi fenomeni geologici: gli esiti di una frana, massi erratici, marmitte dei giganti, dossi montonati.L’area antistante il borgo è infatti morfologicamente costituita da grosse gobbe rocciose che rivelano i segni dell’azione erosiva del ghiacciaio Balteo che, fino a circa 10.000 anni fa, fluiva lungo l’asse vallivo principale, colmandolo con potenti spessori di ghiaccio.La frana di Bard del 1912 è riconducibile ad un crollo in massa, il cui volume fu stimato in 160.000 m3. E’ costituita da grandi blocchi rocciosi di forma cubica e prismatica. L’evento è la testimonianza più recente di un’attività di frana certamente più antica che non interessa non solo il sito segnalato.I massi erratici sono blocchi lapidei di dimensioni metriche trasportati dal ghiacciaio anche per chilometri e poi depositati in fase di ritiro. Questo processo giustificherebbe la presenza di blocchi rocciosi di composizione diversa dal substrato su cui si trovano.Le marmitte dei giganti sono forme fossili modellate dall’azione abrasiva esercitata dalle acque cariche di detriti provenienti dal ghiacciaio in fase regressiva. I ciottoli, trasportati dalle acque del torrente subglaciale, a causa del moto turbolento e per effetto dei processi meccanici esercitati dai continui urti, si comportano come trapani creando delle enormi cavità.I dossi montonati traggono origine dalla pressione esercitata dalla massa glaciale e dall’azione smerigliatrice svolta da notevoli quantità di detrito che hanno modellato il substrato sagomando dossi rocciosi, allungati secondo la direzione di movimento del ghiacciaio: arrotondati sopra e sul lato rivolto a monte, irregolari verso valle. 
IL GRANOFIRO DI CUASSO AL MONTE

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Cuasso al Monte è una località alle pendici del Monte Piambello, che domina il paesaggio fra il Ceresio e il piccolo lago di Ghirla dall'alto dei suoi quasi 1130 metri di altitudine. Lungo le sue strade, edifici e muretti richiamano l'attenzione su di una pietra dal particolare colore rosa salmone intenso, massiccia e con i bordi netti: si tratta del cosiddetto granofiro, una specie di roccia di composizione affine al granito, che in questa zona viene cavata almeno dal XIX secolo, e che oggi viene richiesta ed esportata in tutto il mondo per il suo aspetto e per il colore unico. Pressoché tutto il Piambello è costituito da granofiro: lungo i suoi fianchi, attorno a Cuasso e anche nella vicina Cavagnano, esso affiora in ampie pareti subverticali che spiccano fra la vegetazione per l'intenso colore rosso: sono le pareti delle cave più antiche, oggi in gran parte abbandonate.   Il granofiro ha origine da un magma ricco in quarzo e ortoclasio, e talvolta anche plagioclasio, messo in posto a bassa profondità sotto la superficie attorno a 275 milioni di anni fa, nel Permiano, l'ultimo periodo dell'Era Paleozoica. Il suo raffreddamento è stato piuttosto lento, poiché era protetto dallo spessore di roccia soprastante, cosicché alcuni minerali hanno potuto formare cristalli ben riconoscibili, ma non sufficientemente lento perché tutto il magma cristallizzasse; la roccia mostra quindi una massa di fondo omogenea e amorfa: è questa la tessitura tipica di un porfido.L'intrusione del granofiro avvenne entro una spessa successione di rocce vulcaniche più antiche, all'interno di una grande caldera vulcanica; tutta quest’area, infatti, è caratterizzata da rocce magmatiche, mentre verso oriente i rilievi sono modellati entro una potente sequenza di rocce sedimentarie più giovani, del Mesozoico, che si appoggiano sul basamento cristallino.Cuasso e il suo granofiro sono famosi anche per la gran varietà di minerali in cristalli dalle forme perfette, che sono stati trovati nelle cosiddette cavità miarolitiche contenute nella roccia, dei piccoli vuoti centimetrici originatisi durante il raffreddamento del magma, e parzialmente riempiti da cristalli ben formati di ortoclasio rosa; successivamente, i fluidi idrotermali circolanti nelle fratture hanno dato origine entro tali cavità a molti altri minerali, spesso molto strani e rari. Qualche bell'esemplare di essi può ancora essere trovato rovistando nelle discariche di detriti prodotti da secoli di attività di cava, e ampiamente diffusi nei boschi qui attorno.Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.
Nei secoli passati le rocce lungo le pendici occidentali del massiccio del Monte San Giorgio venivano sfruttate dagli abitanti del territorio per ricavarne ittiolo - un medicamento per la pelle - e olio combustibile. Addirittura, nel 1930 quest'area fu analizzata per la possibilità di estrarne gas per l'illuminazione di Milano, progetto mai realizzato, ma le cui ricerche preliminari furono preziose per mettere in luce l'eccezionale patrimonio paleontologico che oggi rende questo comprensorio famoso a livello mondiale: esso è infatti stato iscritto fra i siti tutelati dall'UNESCO per la sua successione fossilifera che "rappresenta il principale riferimento a scala mondiale per tutti i futuri studi paleontologici riguardanti le faune marine triassiche".Il primo scheletro fossile di rettile venne individuato già a metà '800, e subito dopo il naturalista Antonio Stoppani - autore de Il bel Paese, testo che descrive tutte le meraviglie naturalistiche e paesaggistiche d'Italia - promosse uno scavo per la ricerca di fossili negli "Scisti bituminosi di Besano", come venivano chiamati allora. I risultati furono entusiasmanti, tanto da indurre a continuare le ricerche, sino a costituire nel Museo di Storia Naturale di Milano una collezione a quei tempi unica al mondo; purtroppo, essa venne però distrutta durante i bombardamenti che nella Seconda Guerra Mondiale colpirono duramente il Museo milanese.Dagli anni '80 del secolo scorso, numerosi scavi continuano a susseguirsi in tutta l'area: solo fra Besano e Viggiù, sono sati infatti individuati 25 diversi siti, a cui si affiancano ben 17 miniere di scisti ittiolitici dismesse. Esse hanno permesso il ritrovamento di esemplari rari, o addirittura unici, e in perfetto stato di conservazione, vale a dire con tutte le ossa articolate, cosa che ne facilita enormemente l'identificazione e lo studio. Fra questi spicca il Besanosauro, dedicato alla località di origine, un rettile marino lungo quasi 6 metri vissuto più di 240 milioni di anni fa.Oggi sappiamo che i livelli fossiliferi scavati appartengono a due distinte unità geologiche, deposte in tempi diversi e in diverse condizioni ambientali durante il Triassico medio, primo periodo del Mesozoico, l'"Era dei dinosauri". Le importanti località di Rio Ponticelli, Sasso Caldo e Miniera Tre Fontane appartengono infatti alla Formazione di Besano, un sottile livello di argilliti bituminose nerastre fittamente stratificate, intercalato entro la successione carbonatica della base del Ladinico, datato a circa 240 milioni di anni fa; il colore scuro indica la presenza di materia organica derivata dalla decomposizione di una miriade di organismi animali e vegetali viventi in un bacino marino profondo e col fondale non ossigenato, adatto quindi alla fossilizzazione e alla genesi di idrocarburi. La località di Cà del Frate invece è situata entro il più recente Calcare di Meride, una potente serie di rocce calcaree chiare stratificate, nella cui parte alta spiccano i livelli calcareo marnosi nocciola chiaro fittamente laminati, databili a circa 235 milioni di anni fa. Essi si sono deposti in una laguna con fondale tranquillo e rapida sedimentazione, tale da seppellire rapidamente i resti dei numerosi organismi che la popolavano, permettendone così la conservazione.   Le ricche faune rinvenute in ambedue le Formazioni, oltre ad aver fornito esemplari spettacolari, sono uniche al mondo per l'eccezionale varietà dell'insieme faunistico, che permette quindi di ricostruire le precise relazioni fra le varie specie, alcune predatori e altre prede; il confronto fra livelli appartenenti allo stesso fondale marino ma distanti alcuni milioni di anni evidenzia inoltre alcune linee evolutive che caratterizzano lo sviluppo iniziale di gran parte delle famiglie di Pesci moderni. Un ricco assortimento di fossili di questa zona è esposto al Museo dei Fossili situato nel centro storico di Besano; numerosi sono inoltre gli itinerari, segnalati con pannelli didattici, che si snodano lungo il versante fra Besano e Viggiù, raggiungendo anche alcuni degli scavi più recenti; questi ultimi sono oggetto di visite guidate rivolte alle scolaresche e organizzate dal Museo stesso.Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.www.montesangiorgio.org/Musei/Museo-dei-Fossili-di-Besano.html
Alle spalle dell'abitato di Codogna - oggi compreso nel Comune di Grandola e Uniti - si apre l'ampio e articolato bacino della Val Sanagra, collegata a ovest alla parallela Val Cavargna dalla sella dell'Alpe Logone. Nonostante il suo aspetto poco appariscente, con versanti solcati da ripidi valloni fittamente boscati, essa è famosa fra i paleontologi per la sua pressoché unica flora fossile appartenente al Carbonifero, un periodo dell'Era Paleozoica.In una valletta laterale che sale verso l'Alpe Logone, infatti, si è eccezionalmente conservata una lente di sedimenti di quest'età, pinzata lungo la grande faglia nota come Linea della Grona, che divide il basamento metamorfico affiorante a nord dalla successione carbonatica di età giurassica presente verso meridione. Entro arenarie da grigie a rosse, è presente un livello nerastro spesso non più di dieci metri, ricco di materia organica e localmente di antracite, un tipo di carbone fossile; esso in passato è stato coltivato in due piccole miniere, ora abbandonate. Nello smarino di queste miniere e nei vicini affioramenti, sono state rinvenute nel secolo scorso oltre 2000 impronte di foglie appartenenti a ben 75 diverse specie di piante, tutte viventi circa 310 milioni di anni fa sull'unico grande continente detto Pangea. In quel tempo, mentre gli anfibi erano i dominatori delle terre emerse e gli antenati dei dinosauri stavano iniziando la loro evoluzione, i bassopiani paludosi dell'Euramerica e della Cina erano coperti infatti da estese foreste, costituite da specie ormai estinte, come le grandi licopodiacee e le felci arboree.  Questo straordinario mondo antico torna a rivivere nel vicino Museo Etnografico e Naturalistico della Val Sanagra, allestito ai piani superiori della Villa Camozzi, a Codogna: qui, infatti, è possibile ammirare rami, foglie, impronte di corteccia dal curioso disegno a losanghe, ben riconoscibili su grandi lastre di argilliti carboniose. Questi reperti di eccezionale rarità fanno da degna cornice al vero gioiello dell'esposizione: un seme fossile denominato Trigonocarpus, di oltre 6 cm e perfettamente conservato nelle sue tre dimensioni; esso è una delle più antiche testimonianze delle prime piante con seme, o fanerogame, che in quel periodo erano all'alba della loro evoluzione. Altri fossili più giovani, sia di invertebrati che di Pesci, provenienti dalle rocce della zona completano il quadro delle antiche forme di vita rinvenute fra queste montagne.Il Museo non si limita però a illustrare l'antichissima storia del territorio: un'ampia sala infatti è dedicata a tre estesi diorami che ricostruiscono in grandezza reale gli ambienti naturali attuali riconoscibili nella Val Sanagra, mentre un'altra attigua espone nel dettaglio le varie specie micologiche presenti e numerosi Vertebrati impagliati. Lungo il corridoio una mostra fotografica riconduce il visitatore alla Storia recente, documentando con rare immagini la ferrovia Menaggio-Porlezza, che qui passava tra il 1884 e il 1939. L'intero sottotetto poi è dedicato alla cultura contadina e artigianale sopravvissuta sino al secolo scorso: attrezzi e macchine di uso comune, recuperati nell'intorno e salvati dall'oblio, sono esposti ordinatamente lungo le pareti, mentre il centro della sala è dominato da alcuni eccezionali esemplari di grandi orologi meccanici, ormai soppiantati, nei campanili della zona, da più precisi strumenti moderni.La visita al Museo, voluto dall'Amministrazione Comunale, realizzato dall'Associazione Storia Natura e Vita, e curato da un Dottore Naturalista appassionato alla storia del proprio territorio, permette quindi una immersione totale nella realtà della valle, caratterizzata dalla stretta interazione, nel corso dei secoli, fra l'Uomo e l'ambiente naturale che lo ospita.https://museo.valsanagra.it/https://ecomuseo.valsanagra.it/https://parco.valsanagra.it/