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IL MONTE SAN GIORGIO

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A cavallo del confine italo-elvetico, il massiccio del Monte San Giorgio appare come un triangolo montuoso che da Viggiù e Mendrisio si protende verso settentrione, separando i due rami meridionali del lago Ceresio; nel suo complesso, esso è considerato unico in Europa per lo studio dell'evoluzione della vita sul Pianeta, in un intervallo di tempo compreso tra 250 e 170 milioni di anni fa, cioè per tutto il Triassico e parte del Giurassico.La sua cresta principale, estesa dalla punta a NNE sino a Viggiù a SSW, è segnata da due culminazioni, il Monte San Giorgio propriamente detto (m 1097) e il Poncione d'Arzo (m 1015); la sua ossatura è data da una successione complessa di rocce magmatiche e sedimentarie, disposte con un'inclinazione di una quarantina di gradi verso i quadranti meridionali.Questa struttura fa sì che percorrendone i sentieri lungo i versanti, si incontrino via via da nord verso sud rocce più giovani, "sfogliando" così con continuità, strato dopo strato, una storia geologica di oltre 80 milioni di anni.Tutta la porzione settentrionale, salendo da Porto Ceresio sino a Pianascio (m 860) e quindi ridiscendendo verso Riva San Vitale, è infatti costituita da banchi di rocce vulcaniche silicatiche - andesiti e rioliti della Serie del Piambello - originati da estese colate laviche che alla fine dell'Era Paleozoica ricoprirono tutta l'area.Su di queste giacciono le prime rocce sedimentarie, deposte nel Triassico inferiore entro un bacino marino che, estendendosi da oriente, andava via via sommergendo l'area lombarda occidentale: si tratta di arenarie quarzose provenienti dall'erosione delle vicine terre emerse, a cui seguono dolomie massicce deposte in una laguna subtropicale poco profonda. Le loro bancate risalgono in obliquo il versante da Besano sino alla cima del San Giorgio, per poi ridiscendere sino alla piana a meridione di Riva, costituendo una ben evidente cornice rocciosa svettante dal bosco.All'interno di queste dolomie si estende il livello di argilliti nerastre bituminose, ricche di idrocarburi, noto sin dall'antichità come "scisti ittiolitici di Besano", caratterizzato da una straordinaria ricchezza di fossili di Vertebrati e di Invertebrati, e unico sia per il gran numero di specie diverse presenti che per l'eccezionale stato di conservazione delle stesse.Il ritrovamento di faune in cui sono presenti contemporaneamente non solo generi o famiglie diverse, ma addirittura ordini - dagli invertebrati ai vertebrati più evoluti - è particolarmente prezioso, perché permette di vedere le relazioni intercorrenti fra i vari organismi, individuando le prede e i predatori, e ricostruendo così buona parte dell'ecosistema dell'epoca.A queste bancate di dolomie con orizzonti di argilliti fossilifere segue, da Besnasca salendo alla cresta fra San Giorgio e Poncione d'Arzo, e poi giù sino a Meride, un'altra importante successione fossilifera: i calcari stratificati della Formazione di Meride, alla cui sommità spiccano livelli calcareo-marnosi chiari, fittamente laminati, datati a circa 235 milioni di anni fa. Questi ultimi si sono deposti in una laguna tropicale poco profonda e dal fondale tranquillo, e hanno seppellito rapidamente i resti dei numerosi organismi che in essa vivevano, permettendone così la perfetta conservazione.Queste faune sono di meno di 10 milioni di anni più giovani di quelle dei livelli di Besano; il confronto fra esse permette quindi di valutare come si sono evoluti famiglie e generi in questo arco di tempo, osservando lo sviluppo di nuove morfologie scheletriche e la comparsa di nuove specie.Sopra questi strati si deposero potenti bancate di dolomie chiare, tipiche di un ambiente di piattaforma carbonatica analogo alle Bahamas attuali: esse costituiscono, a sud di Besano, il cornicione roccioso inclinato che sale sino alla cima del Poncione d'Arzo, per poi scendere a oriente sino a Arzo. Poco adatte alla conservazione di fossili, queste rocce appaiono piuttosto poco interessanti, ma la successione stratigrafica del Monte San Giorgio non finisce con esse.Tutto il versante meridionale del massiccio, infatti, da Saltrio a Tremona, ha conservato gli strati deposti nel Giurassico entro un bacino via via più aperto e profondo, ma dal fondale molto movimentato. Banchi di brecce rosate - cavate come pregiata pietra ornamentale, il Broccatello d'Arzo - indicano la presenza di zone alte, da cui si staccavano frane che scendevano verso aree più profonde. In queste acque nuotavano numerosi animali, non solo invertebrati quali numerosi generi di ammoniti, ma anche grandi vertebrati predatori. Nelle cave di Saltrio, infatti, sono stati scoperti numerosi resti di rettili marini, tra cui lo scheletro completo di una nuova specie, mai descritta prima, che ha preso nome proprio da qui: il Saltriosauro.La concentrazione di siti paleontologici importanti e in gran numero entro un'area ristretta, uniti alla esemplarità geologica della successione stratigrafica, conservata per vasti tratti senza alcun disturbo tettonico, hanno reso il massiccio del Monte San Giorgio meritevole della massima protezione e valorizzazione, tanto da essere iscritto tra i patrimoni tutelati dall'UNESCO. 
IL MONTE MARTICA

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Alto 1032 m, il Monte Martica si inserisce nel gruppo delle Prealpi varesine, nel territorio dei comuni di Brinzio, Induno Olona, Valganna e Varese, in provincia di Varese. Si tratta di un sito dove gli interessi naturalistici abbracciano quelli storici.Il Monte Martica domina il versante occidentale della Valganna e rappresenta un sito ben noto agli appassionati di storia poiché qui si trovano i resti di appostamenti di artiglieria scoperti, realizzati nell'ambito della Frontiera Nord.Con il termine “Frontiera Nord” si intende il sistema difensivo italiano alla Frontiera Nord verso la Svizzera, noto anche come “Linea Cadorna” in memoria del capo di stato maggiore del Regno d’Italia Luigi Cadorna. Cadorna portò a termine un ambizioso progetto di difesa del territorio italiano ideato sin dal 1882, e tra il 1915 e il 1916 diresse la costruzione di un complesso di opere di difesa permanenti posto a protezione della Pianura Padana e dei suoi principali poli economici e produttivi: Torino, Milano e Brescia.Il sistema fu progettato con lo scopo dichiarato di proteggere il territorio italiano da un possibile attacco proveniente d'oltralpe, condotto da Francia, Germania o Austria-Ungheria, violando la neutralità del territorio svizzero, e anche da una possibile invasione della Pianura Padana da parte della stessa Confederazione Svizzera.Per proteggere l’Italia, Cadorna ordinò di allestire una imponente linea fortificata estesa dalle valli ossolane fino ai passi orobici. Ne fanno parte molte strade, mulattiere, sentieri, trincee, postazioni d'artiglieria, osservatori, ospedali da campo, centri di comando e strutture logistiche, il tutto realizzato ad alte quote - dai 600 fino a oltre 2000 metri. La linea si estendeva per ben 72 km di trincee, aveva 88 postazioni di artiglierie (11 in caverna), e vedeva 296 km di strade e 398 km di mulattiere.L’opera fu conclusa nel 1916 ma non venne mai utilizzata. Le fortificazioni, all'inizio della guerra, vennero presidiate ma ben presto, e in particolare dopo la disfatta di Caporetto, la linea venne abbandonata. Oggi ne rimangono visibili e visitabili solo alcuni tratti, tra i quali quelli del Monte Martica.La cima del Monte Martica è piana e circondata dal bosco, e presenta sia sul settore orientale che occidentale della cima i resti degli appostamenti d'artiglieria scoperti (o in barbetta) realizzati nell'ambito della linea Cadorna. Al centro della zona sommitale è posto un esiguo sperone roccioso con suggestiva vista sulla Valganna, che ospita una piccola croce. Sotto di esso, sul versante sud del massiccio, si trova la cosiddetta cava della Motta Rossa, vasto sito di estrazione del porfido, dismesso dal 1993.In questa zona non erano presenti solo cave, ma anche miniere: la Valle Castellera, sino agli anni ’70, ospitava una miniera di galena argentifera con annesso impianto di flottazione e una linea di carrelli di trasporto del minerale. Attualmente tale attività è cessata e ha lasciato sul posto alcuni ruderi costituiti dalla laveria, dagli edifici che ospitavano gli uffici della miniera e dalle gallerie di estrazione del minerale, in gran parte chiuse. Al di sotto del villaggio Alpe del Cuseglio, piccolo nucleo abitato risalente agli anni ’60 del secolo scorso, si apre inoltre una enigmatica cavità artificiale, nell’arenaria del Servino, probabilmente sede di una antica miniera che alcune fonti ipotizzano fosse di siderite.Quest’area è stata riconosciuta nel 1995 Sito di Importanza Comunitaria (SIC), denominato “Monte Martica”. Il SIC è quasi interamente compreso nel Parco regionale Campo dei Fiori ed è identificato dal codice IT2010005. I confini del Sito si insinuano a sud nel solco della Val Fredda, che coincide in parte anche con il limite di distribuzione delle rocce carbonatiche costituenti il contiguo massiccio del Monte Chiusarella, risalendo in sponda sinistra sino alla sella tra questa valle e la contigua Val Castellera, per scendere di nuovo e seguire il Rio Castellera sino ad incontrare i margini della Riserva Naturale Orientata Lago di Ganna.Nell’area sono incluse la totalità del territorio della Riserva Naturale Orientata del Paù Majur, dotata di Piano di gestione, e parte della Riserva Naturale Orientata del Monte Martica Chiusarella (bacino del Torrente Castellera e versante orientale del Monte Martica, sino al fondovalle della Valganna).Numerose sono le valenze geomorfologiche del Sito, tra cui rimarchevoli sono i rilievi residuali in porfiriti permiane del versante orientale del Monte Martica e le manifestazioni di pseudocarsismo, impostate sempre su porfiriti permiane, presenti all’interno e al margine della Riserva del Paù Majur, che si manifestano come depressioni circolari a fondo piatto, del diametro di qualche decina di metri, che ricordano molto da vicino le doline carsiche.Oltre ad essere SIC, per la fauna e la flora presenti, quest’area è anche identificata come ZSC, o Zona Speciale di Conservazione. Nel territorio del sito si trovano, infatti, importanti querceti acidofili con presenza di Quercus pubescens e praterie sommitali a Molinia caerulea su substrato acido, entrambi esempi di vegetazione di grande particolarità e unicità.Dal punto di vista della fauna, caratterizzano il sito alcune specie di interesse comunitario come il falco pecchiaiolo, il nibbio bruno, che qui è nidificante, e il biancone, che è invece migratore.
Dal Piano di Spagna la vista spazia verso oriente sulla Valtellina, la grande valle del fiume Adda, che qui scorre sino a sfociare nel Lario. Essa si presenta come un lungo, ampio solco, orientato da Est a Ovest e con un andamento rettilineo, netto come li taglio di un coltello che separi il cuore della catena alpina dalle cosiddette Alpi meridionali: il suo corso si distingue nettamente da quello di tutte le altre vallate alpine all'intorno, tanto da essere ben riconoscibile addirittura nelle foto da satellite.Questo peculiare aspetto è legato alla struttura geologica dell'intera area: verso meridione infatti la valle è contornata dalle Alpi Orobiche, modellate su rocce metamorfiche che, prima dell'orogenesi alpina, costituivano il basamento antico, in rocce già allora metamorfiche, della placca continentale africana; lungo il fianco settentrionale della valle si affacciano invece i primi contrafforti della catena alpina vera e propria, il cui nucleo profondo è costituito dal basamento della placca continentale europea.L'asse della valle segna con precisione la sutura fra i due continenti, la linea ideale lungo la quale essi entrarono in collisione uno contro l'altro, circa 30 milioni di anni fa, innescando la strutturazione e l'emersione dell'intera catena alpina.La ristretta fascia lungo cui in Valtellina rocce di età e soprattutto origine tanto diverse entrano in contatto fra loro, è denominato dai geologi Linea Insubrica; essa costituisce parte del più ampio Lineamento Periadriatico, una linea tettonica di importanza sovraregionale che segna l'antico confine fra continenti a partire dal Canavese a occidente, sino alla Val Pusteria e, oltre confine, alla valle della Drava.La collisione fra i due continenti avvenne dopo una lunga fase di avvicinamento, iniziata più di 60 milioni di anni fa, nel periodo in cui i dinosauri scomparvero dalla faccia del pianeta; l'Oceano interposto si ridusse via via sino a scomparire, mentre le rocce basaltiche e i sedimenti che ne costituivano il fondale sprofondarono in gran parte sotto la placca africana.Dopo la collisione, il protrarsi della compressione gettò letteralmente verso Nord ampie scaglie di crosta del continente africano, che oggi giacciono in pieghe di ampiezza chilometrica, rovesciate sul basamento europeo; brandelli dell'antica crosta oceanica, trascinati e pinzati fra le grandi falde, sono tutt'oggi visibili, trasformati in serpentiniti, in alta Val Malenco.Lungo la sutura le due masse continentali svilupparono anche movimenti di scivolamento laterali, che deformarono le rocce sino a rottura, rendendole deboli e soggette a una rapida erosione: i giovani fiumi della nuova catena montuosa si fecero quindi facilmente strada attraverso questa fascia di rocce tettonizzate, dando origine al corso dell'Adda e scavandone profondamente la valle.All'altezza di Teglio, il fondo in roccia risulta inciso dal paleo-Adda sino a una profondità di 550 m sotto il piano campagna attuale, cioè circa 180 m sotto il livello del mare; più in là, il fondo in roccia del Lago di Como scende oltre i 670 m sotto il livello attuale del mare. Dato che tutti i fiumi scorrono sino al mare, né possono scendere più in giù di esso, ne consegue che per scavare una valle così profonda è necessario che il livello del Mar Mediterraneo fosse molto ma molto più basso di quanto vediamo oggi. E' quello che avvenne circa 7 milioni di anni fa, nel periodo Messiniano, quando per la chiusura del canale di Gibilterra il Mediterraneo si prosciugò completamente. L'origine di queste vallate alpine non è quindi legata all'escavazione glaciale, come si pensava un tempo, ma è invece fluviale e molto più antica.Successivamente, quando il Mediterraneo tornò ai livelli attuali, il solco della Valtellina venne riempito nel corso del Pliocene da depositi di frana, lacustri e alluvionali.Ma la forma che oggi vediamo, con fianchi ripidi e un fondovalle largo e piatto, è più recente: si è sviluppata infatti durante gli ultimi due milioni di anni, quando i ghiacciai alpini avanzarono più volte, sino a raggiungere la Pianura Padana.In questo tratto della Valtellina, il ghiacciaio dell'Adda, accresciuto dall'apporto delle valli laterali, raggiungeva uno spessore di oltre 1000 m, e riusciva a levigare e modellare i fianchi della valle lungo il suo cammino, allargandoli e asportando una gran massa di detriti, che poi depositava lungo il proprio cammino. Gli ultimi 40 m di spessore di sedimenti sotto la superficie attuale sono infatti in gran parte di origine glaciale.Dal punto di vista geologico, quindi, la Valtellina oltre a rappresentare la cicatrice di una collisione epocale, da cui nacquero le Alpi, è anche un sorprendente esempio della varietà di forze che contribuiscono a delineare un paesaggio naturale, e della loro complessa interazione attraverso il tempo.https://ebike-alpexperience.eu/ricerca?EbikeAssetsSearch%5Btitle%5D=VAL+SISSONE
La Cima de' Piazzi, ben visibile da tutta la conca di Bormio e dalla Val Viola, costituisce la culminazione dell'omonimo massiccio, che separa la valle principale dell'Adda dalle valli Verva e Grosìna; esso si estende in senso meridiano dal Corno di San Colombano al Monte Rinalpi, e verso sud dal Pizzo Coppetto sino alle Cime di Redasco.Il suo versante settentrionale, affacciato sulla Val Viola, si articola nei due valloni principali di Cardoné e Lia, caratterizzati dalla presenza, alla loro testata, di un apparato glaciale complesso, attualmente in rapido ritiro, contornato da alcuni corpi ormai classificabili come glacionevati, ai quali è dedicata una specifica scheda (I GHIACCIAI DELLA CIMA DE' PIAZZI). All'esterno dell'area occupata sino al secolo scorso dai ghiacciai, si estende un mosaico di ambienti di alta quota tipici dei substrati acidi, poiché tutto il versante destro del bacino del Viola è modellato in rocce metamorfiche silicee; molti di essi in particolare rientrano nell'elenco degli habitat tutelati dalla Comunità Europea per la propria importanza ecologica e per la loro fragilità. Per tale motivo, questi versanti sono compresi, e protetti, entro il più vasto Sito di Importanza Comunitaria (SIC) di Val Viola - Cima de' Piazzi. Nella fascia più alta, in via di espansione sulle aree via via liberate dal ghiacciaio, allignano piante pioniere che si sviluppano sui ghiaioni e sui depositi glaciali a granulometria più fine (habitat 8110); a esse fanno contorno, sulle pareti più esposte, rivolte con continuità verso NE, comunità tipiche degli anfratti in roccia, adattate a sfruttare le scarsissime risorse presenti (habitat 8220); numerose sono in questi ambienti le specie di interesse comunitario, alcune particolarmente rare e spesso note per la loro spettacolare ma breve fioritura.Questa fascia è insidiata, al margine inferiore, dall'avanzare di una boscaglia con specie legnose striscianti - quali il salice nano - amanti dei suoli umidi in prossimità dei rivoli di acque di fusione (habitat 4080).A quote ancora inferiori, gli habitat predominanti sono quello delle praterie acidofile d'alta quota (6150), in competizione con la vegetazione cosiddetta "delle lande alpine" (habitat 4060), caratterizzata da un intrico si arbusti bassi, ad andamento prostrato quali i rododendri (Rhododendron ferrugineum), i mirtilli (Vaccinium myrtillus) e il ginepro (Juniperus communis): si tratta delle estreme propaggini delle aree a pascolo, che qualora abbandonate evolvono rapidamente a boscaglia, mentre tendono a espandersi verso la fascia superiore sui pendii stabili o stabilizzati. Scendendo oltre i confini del SIC, fra i 2050 e i 2350 m di quota, si estendono poi i pascoli di Cardonné e di Boròn, in Val Lia, facenti capo all'Alpe Boròn.Quest'ultima, acquistata da Regione Lombardia nel 1995 e affidata all'Ente Regionale per i Sevizi all'Agricoltura e alle Foreste (ERSAF), è tutt'oggi condotta dalla stessa famiglia che nel 1900 divenne proprietaria della vicina malga Cardonné.Attraverso quattro generazioni, essa subentrò prima nella conduzione dei due alpeggi, quindi nel '64 acquistò anche la malga Boròn, raccogliendo la sfida offerta da un'economia alpestre che in quegli anni appariva ormai in crisi. A quel tempo, comunque, nei prati dell'alpe monticavano ancora circa 180 capi bovini e oltre 300 ovicaprini.Ampliata e arricchita di un caseificio per la lavorazione in loco del latte dell'alpeggio, la malga divenne ben presto un punto di riferimento anche per un turismo escursionistico e alpinistico via via più frequente. Attualmente l'alpe regge un carico medio di una settantina di capi di bovini, 160 ovini e alcuni suini.Fra i bovini, principalmente di razza bruna, tipicamente da latte e adatta al pascolo di montagna, spiccano delle particolari mucche - di recente introduzione - dal lungo pelo rossiccio e dalle ampie corna a lira: si tratta delle Highlander, una razza originaria della Scozia che si sta diffondendo nelle Alpi per le sue particolari caratteristiche.Resistenti alle malattie e protetti dal freddo dal lungo e folto pelo, infatti, questi animali non abbisognano di uno spesso strato di grasso per vivere in climi freddi o in alta quota; la loro carne è quindi pregiata perché magra e con poco colesterolo. Posta su un percorso alla portata di tutti, oggi l'Alpe Boròn permette di riscoprire le tradizionali attività pastorali, di assistere alla lavorazione del latte per la produzione del formaggio, e di sostare in un ambiente in cui ancora le attività dell'uomo, pur con una sguardo rivolto al futuro, continuano a svolgersi come un tempo, mantenendo un equilibrio con l'ambiente circostante.Essa è infatti ormai un apprezzato punto di ristoro, con possibilità di pernottamento, per quanti vogliano addentrarsi nel cuore dei valloni del versante settentrionale della Cima de' Piazzi, spingendosi attraverso l'area del SIC sino alle estreme propaggini dei ghiacciai.http://www.ruralpini.it/file/Alpeggi/Libro%20ricordo%20del%20Boron-Copia.pdfhttps://www.ersaf.lombardia.it/it/b/621/alpeboron
I MURETTI DEL MONTE BISBINO E LA STORIA GEOLOGICA

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I muretti che costeggiano la strada per il monte Bisbino appaiono molto particolari: essi sono infatti costruiti con una pietra a grana fine, di colore grigio chiaro, sagomata in piatti e regolari blocchetti simili a mattoni. In effetti, essi non sono mattoni, né la loro forma è stata modellata dalla mano dell'uomo, bensì derivano da un calcare naturalmente costituito da strati regolari - cioè che si è formato sin dall'origine in livelli distinti - chiamato Calcare di Moltrasio, da una località vicina dove è stato descritto scientificamente per la prima volta.Esso costituisce tutte le montagne qui attorno, affiorando talvolta con andamento sub orizzontale, più spesso in ampie e larghe pieghe simmetriche, sino a coprire un'area di quasi 180 km².In origine il calcare di Moltrasio era un fango calcareo, derivato da scaglie di organismi unicellulari o da frammenti di gusci più grandi, deposti fra i 200 e i 190 milioni di anni fa, agli inizi del Giurassico, su un fondale marino profondo circa un migliaio di metri. In quel periodo, un ampio golfo, la Tetide, penetrava profondamente fra le due masse continentali delle future Africa ed Europa, allora ancora unite.Lungo tutta questa vasta area, il fondale si mantenne per almeno 100 milioni di anni alla medesima profondità, e nelle stesse condizioni ambientali, cosicché si poterono accumulare, strato su strato oltre 2000 metri di spessore dello stesso monotono sedimento.Ma... c'è un problema: ad esempio, il Po ha continuato a trasportare sabbia nel golfo adriatico nordoccidentale per soli 2 milioni di anni, e questi materiali hanno colmato il bacino, innalzando il fondale fino a farlo emergere, trasformandolo nella Pianura Padana. Come è possibile allora che su un fondale marino si siano accumulati oltre 2000 metri di calcari, nel corso di 100 milioni di anni, senza riempire il bacino, o per lo meno ridurre la sua profondità?In effetti, il fondale continuava a sprofondare per subsidenza tettonica, lasciando via via nuovo spazio per i sedimenti, ma nello stesso tempo l'apporto di sedimenti riempiva il nuovo vuoto che si era creato. In questo modo, l'equilibrio fra la subsidenza - ovvero il graduale abbassarsi - del fondale e la sedimentazione permisero alla superficie effettiva del fondo di rimanere nella medesima posizione, sino a che tettonica e condizioni ambientali non cambiarono.Il vasto e monotono ammasso del Calcare di Moltrasio è quindi, dal punto di vista teorico, un esempio della complessa interazione fra i fattori geologici che caratterizzano un'area; dal punto di vista pratico invece, esso è stato per millenni una fonte inesauribile di materiali grezzi, non solo per semplici muretti a secco, ma anche per grandi costruzioni quali palazzi e chiese locali; fra questi, di particolare spicco è la chiesa di S. Abbondio a Como (basilica di S. Abbondio a Como)
CHIESA DI S. MARTA (MENAGGIO)

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Edificio in muratura ad una navata con cappella laterale, piccolo campanile e copertura a tetto; vi si accede con pochi gradini, è integrato con il tessuto edilizio storico della via Calvi e, pertanto, all'esterno è visibile solo la facciata.Epoca di costruzione: 1885 Indirizzo: Via Calvi (Nel centro abitato, integrato con altri edifici) - Menaggio (CO)
TEMPIO VOLTIANO (COMO)

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La struttura portante dell'edificio è stata realizzata con l'impiego di materiali e tecnologie moderne accostate alla tradizionale tecnica costruttiva locale; il tempio è definito planimetricamente da un corpo principale a pianta quadrata preceduto da un vestibolo al quale si accede a mezzo di due rampe di scale simmetriche.All'esterno, i quattro prospetti, estremamente simmetrici, si impostano su un alto basamento dal quale si sviluppa il corpo principale del tempio sormontato da un alto tamburo e dalla cupola emisferica con oculo centrale.All'interno l'edificio si sviluppa su due piani principali: il piano rialzato e il primo piano rappresentato dalla galleria circolare che corre attorno alla sala centrale e che, fungendo da balconata, consente l'affaccio sulla stessa. Indirizzo: Viale Marconi (Nel centro abitato, isolato) - Como (CO)
FRANA DEL RUINON (S. CATERINA VALFURVA)

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Andando da San Antonio a Santa Caterina Valfurva, la strada attraversa una vasta area dissestata e interessata da lavori di sistemazione; guardando sull’altro versante della valle, si notano delle strane apparecchiature che spuntano fuori dal bosco: sono gli “occhi” che sorvegliano la frana del Ruinon.Quando si parla di frane, si pensa a un improvviso e catastrofico crollo di materiali da un versante scosceso, che ad alta velocità raggiungono in pochi minuti il fondovalle.In realtà, questo è l'atto finale del fenomeno, quando l'equilibrio di un ammasso roccioso instabile si rompe definitivamente; per arrivare a ciò, possono occorrere decine o talvolta centinaia di anni, durante i quali l'intero pendio si muove lentamente verso il basso.Le deformazioni di un versante montuoso dovute alla gravità e protratte nel tempo possono essere evidenziate da periodici isolati crolli di detriti, ma soprattutto dalla comparsa nella parte alta del pendio di fratture che si aprono di giorno in giorno. Da questo punto di vista, il Ruinon è un esempio da manuale.In quest'area, una spessa coltre di depositi glaciali, spesso rimobilizzati da paleofrane, poggia su un substrato roccioso fratturato e instabile, scivolando lentamente almeno dal 1960: in quell'anno infatti una colata di detriti distrusse la strada per Santa Caterina. Negli anni successivi il movimento continuò, a velocità che, nei periodi più piovosi, potevano superare il cm al giorno.Il Ruinon appare oggi come un'ampia ferita nella copertura boscosa, larga almeno 700 m e con due distinte nicchie, una più alta, attorno a 2100 m di quota, e una inferiore, posta a quota 1900 m; il volume dell'intero corpo in movimento viene stimato simile a quello della frana della Val Pola, del 28 luglio 1987.A partire dal 1996, Regione Lombardia ha iniziato il monitoraggio del versante: attualmente, una complessa rete di rilevazione e di allarme permette di raccogliere e processare dati sul movimento a un ritmo di oltre 900.000 misurazioni all'anno, in modo da seguire l'evoluzione della frana e dare l'allarme in tempo, bloccando la strada sottostante.Quello che è certo, è che il Ruinon prima o poi potrà evolversi, sbarrando il torrente Frodolfo e isolando l'alta valle; interventi possibili sono una condotta sotterranea per incanalare le acque, e una galleria per la strada, pronte a entrare in uso già prima della catastrofe.Forse, quando percorrerai questo tratto di valle, essi saranno già in avanzato stato di costruzione, o magari saranno stati appena completati...Sia per la sorveglianza che per le soluzioni in progetto, la frana del Ruinon appare quindi anche un notevole esempio dell'importanza di essere consapevoli della pericolosità geologica di un'area, nonchè della possibilità di prepararsi a fronteggiarne il rischio.
FAI - VILLA FOGAZZARO-ROI (VALSOLDA)

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Un’appartata e intima dimora della borghesia ottocentesca; arredi, quadri e oggetti di squisito gusto rievocano, ancora intatti, le atmosfere del capolavoro di Antonio Fogazzaro, che tanto amò questa villa affacciata su un angolo intoccato del Ceresio.Esistono luoghi che sembrano rimasti fermi nel loro tempo, impermeabili al succedersi dei secoli e alle trasformazioni del territorio. Così accade a Oria, un piccolo borgo sulle rive comasche del Lago di Lugano, dove il ritmo sembra essere ancora quello ottocentesco che qui scandì buona parte della vita di Antonio Fogazzaro.Lo scrittore trascorse lunghi periodi nella Villa che oggi porta il suo nome e che gli fornì l’ispirazione per comporre e ambientare “Piccolo mondo antico”, il suo romanzo più conosciuto, pubblicato nel 1896. La stessa atmosfera intima e domestica che fa da cornice alla vicenda di Franco e Luisa Maironi è giunta inalterata fino a noi grazie al marchese Giuseppe Roi, pronipote dello scrittore, che a metà Novecento rinnovò e riallestì con gusto ogni ambiente prima di lasciare la casa al FAI perché alla sua morte non venisse snaturata. Ed è così che la suggestione letteraria aleggia ancora ovunque, dallo studio con i ricordi personali dello scrittore alla biblioteca, dal salone alla sala da pranzo, alla galleria affrescata fino alla darsena privata dove nel libro si consumò la tragica morte della piccola Ombretta.Il tutto è reso più scenografico da un incantevole giardino pensile che si affaccia su un panorama del Ceresio rimasto in buona parte selvatico, con il profumo intenso dell’olea fragrans che “diceva in un angolo la potenza delle cose gentili”.Pressoché inalterata dai tempi di Fogazzaro, la Villa è un viaggio a due binari in un piccolo mondo borghese di fine Ottocento, ambientato in un recondito angolo di Lombardia tanto amato da uno dei grandi protagonisti della nostra letteratura.Donata al FAI da Giuseppe Roi, nel 2009