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MONTE BAR (CAPRIASCA)

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L'ambiente fisico

Il Monte Bar (1816 m s.l.m.) svetta - assieme alla cima gemella del Caval Drossa (1632 m s.l.m.) e alla Cima Moncucco (1725 m s.l.m.) - lungo l'esteso crinale destro della Val Colla, che da sudovest verso nordest sale al Gazzirola (2116 m s.l.m.), per poi proseguire sino al Passo di San Jorio, segnando ivi il confine italo-elvetico.
L'orientazione della cresta - così come quella della antistante valle del Cassarate - riflette l'andamento delle principali linee tettoniche della zona, fra cui la Linea della Val Colla, una grande faglia che mette in contatto rocce metamorfiche di diverso tipo - anche se tutte appartenenti al basamento cristallino delle Alpi meridionali - e considerate come le più antiche del Sottoceneri.
La loro scistosità e la fratturazione tettonica condizionano il fitto reticolo di torrenti che solcano i versanti dei valloni principali nonché quello della Val Capriasca, che tronca verso occidente il lungo crinale.

Un toponimo derivato dalla tradizione

Il nome del monte Bar deriva probabilmente dal termine locale barc, la caratteristica stalla con fienile tipica della Val Colla e della Capriasca: si tratta di una struttura stagionale per il bestiame, frequente lungo l'allineamento di ripiani fra i 1100 e 1200 m, cioè a una quota intermedia fra il gradino di fondovalle, su cui sorgono i villaggi, e gli alpeggi estivi. Essendo vicini agli abitati, i barchi ospitavano solo il bestiame, mentre le donne salivano ogni giorno a essi per mungere le vacche e portare giù il latte da trasformare in formaggio e burro.

Dai boschi di fondovalle ale praterie d'alta quota

Oltre al cosiddetto Sentiero dei Barchi, che salendo da Corticiasca permette di osservare queste strutture, si può salire al rifugio Capanna Monte Bar - punto d'appoggio per raggiungere la cima - anche seguendo il lungo ma facile Sentiero della Vegetazione, che dai quasi 1000 m di Scareglia sale gradualmente attraversando tutte le zone altitudinali del manto vegetale, che qui sfumano l'una nell'altra in breve spazio. Si passa così dalla cosiddetta zona insubrica in cui domina il castagno, attraverso la fascia altimetrica del faggio, sino a quella delle conifere, per poi affacciarsi, dopo una zona a sparsi arbusti bassi e contorti, alle praterie alpine e alle creste rocciose, popolate di licheni e specie pioniere a portamento nano, tipiche delle alte quote.

Pionieri nella salvaguardia dal dissesto idrogeologico

Questa ricchezza di associazioni vegetali diverse venne messa in serio pericolo nel corso dell'800: analogamente al resto della fascia prealpina, infatti, anche qui la crescente richiesta di legname da parte dell'industria, nonché lo sviluppo dell'allevamento - con la conseguente necessità di ampliare le aree a pascolo - provocarono l'esteso disboscamento dei versanti.
Veniva a mancare così un importante fattore di protezione dai dissesti idrogeologici, e le conseguenze si videro con gli eccezionali eventi meteorologici dell'autunno del 1868: la catastrofica alluvione che ne conseguì segnò la storia della gestione forestale elvetica e più in generale europea.
Nel 1876 venne infatti promulgata una rivoluzionaria legge forestale, incentrata sul concetto di bosco come patrimonio da trasmettere alle generazioni successive, del quale la Confederazione si assumeva l'onere - anche finanziario - di vigilanza e di salvaguardia, dando inizio così alle prime campagne di sistemazione forestale.
Da allora, la copertura arborea delle montagne elvetiche ha avuto quasi 150 anni per recuperare gran parte della propria fisionomia originaria, come si può vedere qui sul Monte Bar.

Tracce preistoriche sulle rocce

L'aspetto più interessante del Monte Bar è però la notevole concentrazione, nella fascia più bassa, di massi ricchi di incisioni e talvolta lavorati e disposti dall'Uomo in configurazioni che non possono essere naturali.
Si tratta di blocchi di crollo o più frequentemente di erratici abbandonati dal ghiacciaio che nei periodi freddi del Pleistocene ha riempito le valli sino ai 1200 m di quota: essi, probabilmente per la loro singolarità, attrassero le popolazioni locali, apparendo come luoghi sacri legati al manifestarsi del divino.
Noti a volte da secoli ai locali, e oggetto talvolta di cupe leggende, la loro valorizzazione è recente, a partire dal 2010, quando un appassionato di storia locale, Pepi Schnyder, individuò sopra Lelgio il primo singolare raggruppamento di pietre poste in cerchio, su un dosso attorno a 900 m di quota e vicino a una cappella: un cromlech, disposizione che si pensa legata a un luogo di culto.
A questo seguì il grande megalite detto "balena bianca", lungo 4 metri e ormai adagiato in un prato sotto Caslàsc, ma dalla inconfondibile forma di menhir, uno dei più grandi della Svizzera se venisse rimesso in piedi nella posizione originaria.
 
A poca distanza, su un poggio presso cascina Mongarin (q. 770 m), la superficie levigata della roccia appare invece costellata da una cinquantina di coppelle, incavi semicircolari di incerta interpretazione, di cui alcuni ampi sino a una ventina di centimetri.
Un altro interessante raggruppamento di massi incisi si trova sotto l'Alpe Musgatina, lungo la strada che da Corticiasca sale alla vetta; qui, a Piansotto (1170 m s.l.m.) e sul pianoro poco sopra (1250 m s.l.m.), si conta una settantina di massi ricchi di svariati segni.
Alcuni mostrano infatti semplici incisioni lineari, ma molti altri sono costellati da coppelle talora collegate da canaletti, da impronte di piedi - un soggetto ricorrente nelle incisioni rupestri di tutto l'arco alpino - o da serie di piccole croci, forse incise in epoche diverse e da popolazioni diverse. In alcuni casi appaiono intenzionalmente spostati, mentre un paio sono molto probabilmente dei piccoli menhir, un tempo volutamente eretti in mezzo al prato.
Si tratta di testimonianze del popolamento della montagna attraverso i millenni - le più antiche possono risalire addirittura all'Età del Bronzo - sparse un po' dappertutto nel Ticinese, ma che lungo le pendici del Monte Bar si presentano con particolare evidenza, essendo spesso raggruppate in insiemi articolati.

La Capanna Monte Bar: un rifugio ecosostenibile

Come accennato, un buon punto d'appoggio sia per cercare i massi incisi, sia per apprezzare gli aspetti naturalistici del Monte Bar è l'omonima capanna, posta 200 m sotto la vetta, a 1600 m di quota.
Di proprietà del Club Alpino Svizzero (CAS) Ticino, Sezione di Lugano, essa appare oggi come un avveniristico edificio in legno e vetro, appoggiato su un balcone naturale da cui si gode di un panorama incomparabile sulle montagne intorno e, verso ovest, sulle cime delle Alpi del Vallese sino al Monte Rosa.
Edificata su tre piani in muratura nel 1936, è stata così ristrutturata e ampliata nel 1993, progettandola in maniera da ottenere un bilancio energetico ottimale, un'elevata luminosità naturale degli ambienti e energia tratta direttamente da pannelli fotovoltaici integrati nella struttura.
Aperta tutto l'anno, dispone in estate di un dormitorio con 34 posti letto, fruibili con sacco lenzuolo personale o acquistato in loco, e possibilità di consumare pasti preparati dal guardiano; data la posizione, l'approvvigionamento d'acqua è difficoltoso, e soprattutto nelle stagioni più secche a volte deve essere portata dal basso.
Si tratta insomma di un vero e proprio rifugio alpino tradizionale, inserito nel proprio ambiente - e da esso condizionato, nonostante l'aspetto moderno e quasi "cittadino" - a degno coronamento di una montagna alla portata di tutti ma sulla cui cima già si respira l'aria delle vicine Alpi.

 

 

 

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