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CAVERNA GENEROSA: “LA GROTTA DELL’ORSO”

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La Caverna Generosa (Lo 2694) è una grotta sul versante italiano del Monte Generoso, nei pressi del confine svizzero. Essa è stata scoperta nel 1988, e al suo interno sono stati ritrovati moltissimi resti fossili di Ursus speleaeus, il cosiddetto “orso delle caverne”, per cui viene anche detta "Caverna dell'orso".La scoperta venne fatta da due speleologi ticinesi dell’Associazione Speleologica Svizzera, che, percorrendo in estate la zona, ne individuarono l’apertura.Il foro per accedere alla caverna era molto piccolo, e per questo nel tempo venne ampliato, sia per permettere il passaggio dei ricercatori, che da allora vennero in questo luogo per studiare la fauna che viveva in questi luoghi 60.000 anni fa, sia per favorire l’accesso dei visitatori che con il tempo divennero via via sempre più numerosi. La Caverna Generosa al momento della scoperta era costituita da uno stretto cunicolo iniziale, lungo circa 25 metri, per mezzo del quale si accedeva a una prima sala - denominata Saletta - dalla quale, attraverso uno stretto e difficile sifone, si giungeva dopo circa 70 metri in una sala più ampia - denominata Sala Terminale - all’interno della quale furono trovati i primi reperti di orso delle caverne - Ursus spelaeus - che hanno dato l’impulso determinante per l’esecuzione dei primi scavi paleontologici, iniziati negli anni ’90 e ancor oggi in corso. I primi studi nella grotta, relativi a reperti di orso delle caverne raccolti in superficie, avvennero nel 1989. Alcune ossa, rinvenute sul piano di calpestio, furono datate con il metodo del Carbonio 14 dall’Università di Zurigo, fornendo un’età di circa 39000 anni. Purtroppo, questi primi reperti furono raccolti senza rispettare alcun criterio scientifico, così da rendere impossibili analisi approfondite successive, necessarie a meglio comprendere l’ambiente di deposizione e a trarre tutte le informazioni su questi animali, vissuti nel lontano passato. Nel 1991 il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Milano fece alcuni saggi di scavo per verificare la consistenza del deposito, e quindi la possibilità di eseguire scavi continuativi. Dato l’esito positivo di questi accertamenti, negli anni successivi furono condotte alcune campagne di scavo. Alcuni anni dopo, l’esecuzione di alcuni saggi nella galleria iniziale rivelarono la presenza di reperti fossili anche molto prima della zona classica di scavo. Così nell’autunno 1998, grazie al sostegno finanziario della Ferrovia del Monte Generoso S.A., anche in vista della possibilità di rendere visitabili gli scavi, si è proceduto ad uno scavo che ha interessato la cavità dall’ingresso fino all’inizio della Sala Terminale. Come ci si aspettava, il deposito si è rivelato abbondantemente fossilifero fin dai primi metri, permettendo di recuperare interessanti reperti relativi a differenti intervalli di tempo nonchè in diverso stato di conservazione. Vista la stabilità e la sicurezza della grotta, è stato permesso ai turisti del Monte Generoso di visitare la cavità per avere l’eccezionale possibilità di vedere un deposito fossilifero dal vivo e di osservare direttamente le modalità di scavo e di recupero dei fossili degli animali che un tempo vivevano nell'area.L’illuminazione è garantita da una coppia di generatori e da un duplice impianto, che copre tutto il percorso e l’area di scavo. In totale in questa grotta sono stati estratti 40.000 resti fossili di orso delle caverne e altri rari resti di mammiferi risalenti a 60.000 anni fa. Inoltre, sono stati trovati alcuni strumenti in selce associabili all'Uomo di Neanderthal, la più antica testimonianza della presenza dell'Uomo in Lombardia. Studi approfonditi sui micro-mammiferi hanno permesso la ricostruzione degli ambienti che si sono succeduti nell'area negli ultimi 60.000 anni, attraverso ben due fasi glaciali. La ricerca scientifica è gestita dal Dipartimento di Scienze della Terra A. Desio dell'Università degli Studi di Milano, che cura anche la preparazione delle guide. Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.
IL GHIACCIAIO DEI FORNI

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Il Ghiacciaio dei Forni, o “del Forno” come scriveva Antonio Stoppani, è uno dei più estesi ghiacciai italiani, secondo per area solo al complesso Adamello-Mandrone. E’ classificabile come “ghiacciaio vallivo a bacini composti o confluenti” ed è - o meglio era - costituito da tre bacini collettori dai quali scendono tre colate che confluiscono in un’unica lingua valliva. In realtà tra il 2015 e il 2018 si è completata la frammentazione in tre apparati separati, che ha portato alla formazione di tre ghiacciai distinti e non più interagenti.Il Ghiaccio dei Forni è uno dei migliori testimoni dei cambiamenti climatici in atto. Dalla fine della Piccola Età Glaciale, ovvero circa il 1860, ad oggi è arretrato di ben 2 km! Dove un tempo vi era una lingua glaciale maestosa vi è ora una valle ampiamente colonizzata da larici e abeti e attraversata un grande torrente. La lingua glaciale, ben visibile se si sale almeno fino alla terrazza del Rifugio Branca, a 2493 m di quota, è segnata da tre morene mediane, dette anche morene galleggianti, ben apprezzabili anche da un osservatore non esperto di ghiacciai poiché appaiono come nastri scuri di detrito roccioso, rilevati rispetto alla superficie circostante del ghiacciaio. Il dislivello tra le morene mediane e il resto della superficie della lingua glaciale è in alcuni punti anche di 10 metri ed è conseguenza dell’ablazione differenziale. Con questo termine i ricercatori chiamano la differente velocità di fusione del ghiaccio coperto da detrito roccioso rispetto a quella del ghiaccio pulito circostante. Il ghiaccio protetto da detrito infatti, se questo è presente in spessori di almeno 5-10 cm, fonde più lentamente di quello esposto direttamente all’irraggiamento solare e alle calde temperature estive. A questa diversa velocità di fusione si deve il dislivello altimetrico tra il ghiaccio coperto da detrito (la morena galleggiante) e le aree circostanti.Osservando il ghiacciaio sono poi ben visibili ampi crepacci, così vengono chiamate le fratture presenti alla superficie del ghiacciaio. Sono queste deformazioni fragili, chiara evidenza che il ghiacciaio dei Forni non è una forma statica del paesaggio ma si muove, si muove da monte verso valle alla velocità di qualche decina di metri all’anno.   Sono anche ben visibili pieghe di ghiaccio bianco alternato a ghiaccio grigio e nerastro. Queste ultime sono chiamate ogive e sono deformazioni duttili del ghiaccio sottoposto a sforzi in conseguenza del movimento e rappresentano l’equivalente glaciale delle pieghe rocciose osservabili in diverse aree delle nostre Alpi. La lingua del ghiacciaio dei Forni rappresenta un’area estremamente dinamica dal punto di vista geomorfologico. La sua evoluzione è rapida ed in fase di accelerazione. Negli ultimi anni, in particolare a partire dal 2003, la lingua si è ulteriormente ridotta di spessore e di lunghezza, ha ampliato la copertura detritica fine (che rende il ghiaccio sempre più scuro, fenomeno chiamato darkening nella letteratura internazionale), si sono formati crepacci circolari che, collassando, hanno dato origine a effimeri laghi epiglaciali e di contatto glaciale, e sempre più ampie emersioni di roccia del substrato che si possono ampliare sino a isolare lembi di ghiacciaio e causare frammentazioni.Tutta la zona della lingua glaciale, e soprattutto della fronte, rappresenta uno dei migliori esempi alpini di transizione da un sistema glaciale a un sistema paraglaciale, caratterizzato da un intenso rimaneggiamento dei detriti glaciali da parte delle acque di fusione. Nelle aree circostanti la lingua si individuano i sistemi morenici deposti dalle fasi di espansione precedenti, in particolare quella del 1965-1985 con ben evidenti nuclei di ghiaccio, che originano fenomeni di dissesto tipo colate di fango e colate detritiche, sovrastata dall’imponente morena laterale, spesso affilata, della Piccola Età Glaciale (PEG, periodo di generalizzata avanzata dei ghiacciai, tra il 1550 e il 1850) con forme di erosione pseudocalanchive.Sul fondovalle sono evidenti anche lembi delle morene deposte durante gli anni 20 del XX secolo.Diffuse sono anche le forme di erosione glaciale, come le rocce montonate.La bibliografia, sin dai tempi di Stoppani, lo considera uno dei ghiacciai più rappresentativi delle Alpi non solo italiane. In questi ultimi anni la frequentazione di studiosi di tutta Europa ne ha fatto un sito di notevole interesse scientifico dove osservare le evidenze morfologiche fra le più chiare della deglaciazione in atto con i suoi vari processi (glaciali, torrentizi, gravitativi, periglaciali).Dal 2005 sulla superficie del ghiacciaio sono collocate due stazioni meteorologiche automatiche permanenti (installate dall’Università di Milano e gestite in collaborazione con il Parco Nazionale dello Stelvio) che rilevano in continuo i sette parametri meteo come richiesto dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale e che hanno permesso di quantificare con risoluzione oraria il bilancio energetico glaciale e la conseguente fusione, nonché di descrivere l’accumulo nevoso e la sua variabilità stagionale e interannuale.Le stazioni meteo del ghiacciaio dei Forni hanno anche evidenziato che su questo grande ghiacciaio spira in alcuni mesi dell’anno un vento catabatico assolutamente comparabile con quello noto sui grandi ghiacciai antartici e groenlandesi che ha spesso superato i 130 km/h di intensità.Non da ultimo, questo ghiacciaio è stato il primo in Italia studiato anche con l’ausilio di droni che hanno permesso di quantificarne ad altissima risoluzione le variazioni geometriche e volumetriche conseguenti al climate change. E’ quindi un vero e proprio laboratorio scientifico a cielo aperto.
CONOIDE DI FRANA DEL TORRENTE MIGIONDO (SONDALO)

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Un elemento estremamente caratteristico del paesaggio in cui è incastonato l'abitato di Sòndalo è il grande conoide del torrente Migiondo, su cui sorge l'omonimo abitato nonché quello di Sommacologna; esso è ben visibile nel suo insieme dal versante di fronte, risalendo per un tratto fra le cascine lungo il torrente Lenasco. Osservata da lì, la superficie di Migiondo e Sommacologna disegna una specie di ampio ventaglio, o meglio un basso semicono con l'apice rivolto a monte, da cui appunto la denominazione di "conoide". Solitamente, conoidi detritici ampi e quasi piatti si originano allo sbocco delle grandi vallate laterali nella valle principale, per il graduale accumulo, in tempi lunghi, dei materiali erosi lungo i versanti e trasportati sino a lì dagli affluenti; in questo caso, si parla di "conoidi alluvionali" perché la loro genesi è legata all'azione continuativa delle acque correnti. Il conoide del Migiondo si presenta però molto diverso da questo schema. La sua superficie, infatti, è molto più inclinata, e il suo apice si spinge per oltre un chilometro entro la valle che sembra alimentarlo. Il suo bacino idrografico, a sua volta, appare più come una sorta di ristretto anfiteatro dai versanti ripidi e dirupati che abbracciano il conoide, che non come una vallata vera e propria, articolata in valli secondarie confluenti. La sua estensione areale è ridotta, e l'ampia testata, solcata da brevi canaloni, incombe subito a monte. Verso valle, infine, il conoide è bruscamente troncato da un'imponente scarpata, erosa dal fiume Adda e alta in alcuni tratti sino a 110 metri. Tutti questi elementi sono caratteristici dei cosiddetti conoidi di frana, ovvero di ammassi costituiti da detriti di dimensioni eterogenee - limo, sabbia e ghiaie con imballati blocchi sino a oltre dieci metri di larghezza - messi in posto durante un improvviso evento catastrofico: fra 9000 e 8000 anni fa, il versante della montagna a lato di Sòndalo, già profondamente fratturato, collassò, trascinando con sé la copertura boscosa e riempiendo la valle dell'Adda; proprio alcuni tronchi sepolti, rinvenuti nella scarpata, hanno permesso di datare, con il metodo del C14, il disastro. Successive colate di fango e detriti seppellirono poi il corpo di frana, regolarizzandone la superficie e accentuandone la forma a ripido cono; lungo le scarpate si può notare infatti una sorta di rozza bancatura entro l'ammasso, che sottolinea i singoli episodi di colata. Il conoide di frana sbarrò temporaneamente la corrente, creando un ristagno di acqua a monte, riempito successivamente dall'accumulo di materiali da parte dell'Adda, sino a che il fiume non riuscì a incidersi un nuovo percorso attraverso l'ostacolo, tagliando la netta scarpata che oggi vediamo. Lungo la ciclabile sulla sponda opposta, a valle di Bolladore, sono ben visibili enormi blocchi di gneiss e di anfiboliti, che un tempo affioravano sulle cime di fronte: essi rappresentano l'altra parte del corpo di frana, ormai separata dall'incisione dell'Adda. Questo tipo di conoidi di frana è comune lungo questo tratto della valle dell'Adda, a causa dell'elevata inclinazione dei versanti e della presenza di rocce fratturate e altamente instabili; altri esempi del medesimo tipo sono i conoidi di Ponte in Valtellina, Sernio e Talamona. Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.
FRANA "DELLA VAL POLA" (VALDISOTTO - SONDALO)

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La ciclovia attraversa un'ampia area brulla e denudata, larga più di 700 m, che taglia il versante del Monte Zandila sino al fondovalle, caratterizzato da una sistemazione a gradoni modellati in ghiaie. Si tratta dei resti della catastrofica frana detta "della Val Pola", una delle più grandi delle Alpi nel secolo scorso, avvenuta il 28 luglio del 1987, dopo un periodo di intense precipitazioni. Nel corso della frana vennero giù, in circa mezzo minuto, 34 milioni di metri cubi di materiale, che riempirono il fondovalle e si incastrarono, in basso, nella strozzatura della valle seppellendo il ponte del Diavolo, risalendo poi il versante opposto e cancellando quattro abitati, S. Antonio, Morignone, Piazza (per fortuna evacuati) ed Aquilone (che non venne distrutta direttamente dalla massa franosa, ma dall’immane spostamento d’aria). La massa si staccò da una quota di circa 2300 s.l.m. e precipitò come rock avalanche (frana di roccia) per un dislivello di 1250 metri, accumulando sul fondovalle una massa di 40 milioni di metri cubi (per effetto dei vuoti al suo interno). La sua velocità al momento dell'impatto con il fondovalle variò a seconda dei punti, da 275 a 390 km/h. Questo tragico evento di dissesto rimane ancora nella memoria degi abitanti, che non possono dimenticare le vittime e la profonda trasformazione della loro valle. Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.
GHIACCIAIO DI PIETRE (ROCK-GLACIER) DEL FILONE

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Salendo verso il Passo della Vallaccia, la copertura detritica lungo il pendio del Pizzo Filone si presenta con un assetto strano, in qualche modo ordinato: un grande lobo principale dalla superficie convessa e dalla fronte ripida sembra fluire lentamente, rimanendo sospeso sul fondovalle; dietro esso, altri corpi analoghi appaiono via via. Dall'alto, ciascuno di essi si presenta nell'insieme come una colata densa e quasi cremosa improvvisamente congelata sul posto, caratterizzata da rughe sporgenti pressoché concentriche, pur essendo costituito nel dettaglio da detrito grossolano, con sparsi blocchi anche giganteschi: è questo l'aspetto tipico dei cosiddetti ghiacciai di pietre, o, in termine tecnico, rock-glacier, ovvero degli oggetti, caratteristici del paesaggio d'alta quota, simili per certi aspetti a ghiacciai veri e propri, ma costituiti prevalentemente da frammenti rocciosi.   In effetti, la copertura detritica visibile sul pendio del Pizzo Filone è più propriamente un ammasso di blocchi imballati e tenuti assieme dal ghiaccio, cosicché il suo comportamento sul versante è determinato dal flusso plastico del ghiaccio stesso sotto la forza di gravità. La sua origine risale ad almeno 7000 anni fa: improvvise, catastrofiche frane simili a valanghe di roccia possono aver coperto una piccola lingua glaciale locale ormai in ritiro, proteggendola da un'ulteriore rapida fusione e preservando così un nucleo di ghiaccio entro l'ammasso di frana; oppure, più probabilmente, è stato il preesistente corpo detritico a intrappolare l'acqua entro i propri vuoti: trasformata in ghiaccio interstiziale, essa poi si è mantenuta nel tempo senza più fondere. Ambedue questi fenomeni, spesso concorrenti, hanno come risultato una mistura di ghiaccio e roccia, formatasi in condizioni cosiddette di permafrost, ovvero di terreno perennemente gelato, o, più precisamente, che si mantiene gelato per almeno due anni consecutivi. Sino a che il nucleo ghiacciato non fonde completamente, il rock-glacier rimane attivo, cioè in movimento; quando il ghiaccio scompare del tutto, invece, la sua evoluzione si blocca, ed esso diviene dapprima inattivo e poi fossile. In questa porzione della catena alpina, i rock-glacier sono diffusi fra i 2000 e i 3000 m di quota, ma solo alle altitudini maggiori sono ancora attivi, come qui sul Pizzo Filone o quello nella zona del Passo Foscagno, a cui è dedicata un'altra scheda. Dal sentiero, che corre a una quota sui 2200 m sul livello del mare, è possibile vedere bene solo uno dei quattro rock-glacier del Pizzo Filone, il più grande denominato Filone III, ma guardando dal Passo della Vallaccia appare anche, a sinistra, il vicino Filone II; una visione completa dell'intero gruppo richiederebbe però di portarsi a piedi, lungo tracce di sentiero attraverso il detrito, sino almeno a quota 2750, sovrastandone in tal modo le fronti.
Dal sentiero, l'alta Val Viola appare nascosta alla vista da un'imponente bastionata, costituita da un ammasso caotico di grandi blocchi squadrati, solo in parte coperti da sparsi cuscini erbosi e da giovani conifere. Dietro essa, le pareti pressoché verticali del Corno di Dosdè svettano verso il cielo, mentre ai loro piedi la superficie cristallina del Lago di Val Viola risplende nel verde. La tranquillità delle sue acque e i prati fioriti creano un brusco contrasto con le affilate rocce gneissiche circostanti e con il disordine del mucchio di blocchi che sembra chiudere il lago. Ma in effetti il Lago di Val Viola deve la sua origine proprio a quel bastione di blocchi, originatosi da una vera e propria catastrofe naturale: esso infatti è quanto rimane di una grande valanga di roccia, ovvero un particolare tipo di frana che coinvolge un intero ammasso roccioso, inizialmente integro, che si distacca, lungo fratture preesistenti, da un versante instabile, frantumandosi nella caduta. Queste cosiddette valanghe di roccia, o "rock avalanche", possono raggiungere velocità sino a 100 metri al secondo, risultando fra le frane più veloci, e su terrreni piatti o debolmente inclinati possono espandersi a grande distanza. La frana della Val Viola è sparsa su di una superficie di circa un chilometro quadro, e ha assunto una forma linguoide con margini nettamente definiti; nonostante il suo spessore non sia noto con precisione, il suo volume può essere stimato attorno a 3.400 metri cubi almeno. Essa venne giù dal Corno di Dosdè circa 3.500 anni fa, in un periodo a clima più caldo successivo alla completa deglaciazione della valle; probabilmente le temperature più elevate del solito causarono lungo le pareti la fusione del "permafrost", cioè di quello strato superficiale della roccia perennemente gelato, presente alle quote più alte. Su roccia, il "permafrost" è infatti caratterizzato dalla presenza di ghiaccio interstiziale che cementa le preesistenti fratture, rendendo solido e compatto l'ammasso roccioso; in una fase di riscaldamento climatico, questo ghiaccio può essersi fuso, riducendo la stabilità delle pareti del Corno di Dosdè, e innescando in tal modo la catastrofica frana che sbarrò il lago.
LA VAL SISSONE: UN MOSAICO DI ROCCE DIVERSE

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Il Màllero - torrente che forma la Valmalenco - trae origine al Pian de Lupo, appena sopra Chiareggio; qui confluiscono infatti tre valloni, disegnando assieme a esso una croce quasi perfetta: il Muretto da nordovest, il Ventina da sudest, e il Sissone da sudovest. La valle di quest'ultimo è molto nota anche a livello internazionale per gli spettacolari esemplari di minerali di numerose specie anche rare, e spesso dalle forme perfette; la loro concentrazione qui è legata alla particolare struttura geologica di quest'area, in cui vengono a contatto rocce di provenienza, composizione ed età molto diverse tra loro. La valle, ad andamento pressoché rettilineo, attraversa infatti almeno tre domìni geologici diversi, che si susseguono condizionando il paesaggio, sino a entrare in profondità entro il massiccio del Monte Disgrazia. Nella sua parte bassa, essa è caratterizzata da versanti impervi, con una rada vegetazione e sparsi affioramenti rocciosi di colore verde scuro: si tratta delle cosiddette Anfiboliti di Monte del Forno, delle rocce metamorfiche ultrabasiche, costituite prevalentemente dall'anfibolo orneblenda e subordinatamente da plagioclasi. Esse derivano dalla trasformazione - o metamorfismo - di colate sottomarine di lava basaltica, effusa nel Giurassico lungo una dorsale oceanica, e testimoniano una fase - attorno a 180-170 milioni di anni fa - in cui le placche africana ed europea, riunite nel Pangea, venivano separate da un nuovo oceano. Durante l'orogenesi alpina, a partire da 60 milioni di anni fa, queste rocce della crosta oceanica sono state trascinate in profondità, deformate e metamorfosate, per poi essere riportate alla superficie, ove oggi sono ancora riconoscibili; in alcuni luoghi, nonostante la trasformazione mineralogica, esse hanno addirittura conservato la struttura a grossi cuscini accatastati - le cosiddette lave a pillow -  tipica di una lava basaltica che si raffredda rapidamente al contatto con l'acqua, senza riuscire a fluire a lungo. Questo tipo di rocce - che si accompagnano alle serpentiniti, originate dal metamorfismo del mantello sotto-oceanico - sono presenti in Lombardia solo qui, fra la Val Sissone e il Passo del Muretto. La valle attraversa poi una stretta fascia di rocce completamente diverse, antichissimi gneiss che costituivano la crosta continentale della placca europea, associati a sedimenti argillosi e carbonatici trasformati rispettivamente in metapeliti e in marmi durante l'orogenesi alpina. Tutta la testata della valle, infine, è incisa entro il batolite del Màsino-Bregaglia, un complesso corpo di rocce magmatiche intrusive - granodioriti e quarzodioriti - che si è messo in posto nelle fasi più tardive della strutturazione della catena alpina, circa 30 milioni di anni fa, nel periodo terziario. Esso costituisce gran parte del Massiccio del Disgrazia, affiorando sino alla Val Màsino - ove forma le pareti di ghiandone della Val di Mello - dall'altra parte della cresta, verso occidente. Il magma del corpo intrusivo del Màsino-Bregaglia, incandescente, venne a contatto con le rocce incassanti, modificandole profondamente: il calore elevato infatti portò i loro minerali a riorganizzarsi nuovamente, generandone altri, mentre i fluidi espulsi, ricchi di elementi rari, fornirono la materia prima per specie mineralogiche nuove e uniche, diverse per ciascuna roccia interessata dai fenomeni di metamorfismo di contatto. Nella parte più alta, la Val Sissone si apre in un'ampia conca, racchiusa - come accennato - dalle maestose pareti del Monte Disgrazia. Il suo nome evoca eventi infausti, ma ha un'origine completamente diversa: esso deriva infatti da "desglàcia", che nelle lingue locali indica lo sghiacciarsi, riferito alla fronte dell'omonima Vedretta, sospesa sulla valle, e ai blocchi di ghiaccio che rovinosamente cadono da essa, infrangendosi centinaia di metri più sotto con spaventosi boati.   Proprio il ghiacciaio, oggi fortemente ridotto, raccoglieva durante la Piccola Età Glaciale frammenti di tutte le rocce sopra descritte, trascinandole a valle e deponendole nelle morene laterali o nella piana fluvioglaciale antistante, l'attuale Pian del Lupo. Qui i massi sparsi costituiscono oggi un eccezionale campionario di tutte le rocce non solo della Val Sissone ma anche delle due valli del Muretto e del Ventina, permettendo di apprezzarne la grande varietà di colori e di aspetti, e di cercarvi qualcuno dei minerali per cui la Valmalenco è famosa, sebbene oggi sia ormai difficile trovare campioni ricchi di bei cristalli. Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.
LA VALLE DEI FORNI (S. CATERINA VALFURVA)

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La Valle dei Forni prende il nome dal ghiacciaio che la domina, uno dei giganti delle Alpi italiane (con una superficie che ancor oggi supera i 10 km²), annoverato tra i migliori testimoni dei cambiamenti climatici passati e attuali. Il Ghiacciaio dei Forni, oggi ben visibile se si raggiunge il Rifugio Cesare Branca a 2493 m di quota, è stato fino al 2015 uno dei pochissimi ghiacciai vallivi a bacini composti delle Alpi italiane (già definito di tipo himalayano) e ha rappresentato l’apparato vallivo più vasto sul versante meridionale delle Alpi. La testa del ghiacciaio dei Forni è delimitata da una cresta rocciosa che costituisce parte del classico e frequentato itinerario alpinistico noto come “traversata delle 13 cime”, dove spiccano vette come il San Matteo (3678 m slm) e il Tresero (3602 m slm). Nel recente passato tre bacini di accumulo alimentavano la vasta lingua glaciale, lingua che 150 anni fa raggiungeva la posizione dell’attuale chiusa gestita da A2A per la produzione di energia idroelettrica (a circa 2100 m di quota) e che in un secolo e mezzo si è ritirata di oltre 2 km di lunghezza e si attesta nel 2020 a poco meno di 2600 m di quota. Attualmente solo il bacino di alimentazione centrale è ancora connesso alla lingua glaciale, questo perché nel 2015 la seraccata orientale che connetteva il bacino omonimo con la lingua è interamente scomparsa, a seguito di crolli e collassi, e nel 2018 lo stesso destino è toccato al settore occidentale, ormai non più comunicante con la lingua ablativa. L’acqua del ghiacciaio dei Forni, raccolta alla chiusa A2A attraverso una fitta rete di canalizzazioni, giunge poi ai bacini di Cancano e concorre alla produzione di energia idroelettrica. Attraverso le ciclovie e-bike possiamo osservare molti invasi e chiuse a testimonianza della quantità di acqua che in Lombardia viene raccolta e utilizzata per la produzione di energia. Non è un caso che questa regione rappresenti il 28% dell’Idroelettrico nazionale. Al posto della lingua di ghiaccio ormai arretrata, la valle dei Forni ospita oggi un torrente alimentato dalle acque di fusione glaciale e caratterizzato da anse e meandri e un bosco di larici e abete rosso in rapida risalita. Le piante più antiche che oggi popolano la foresta nella valle liberata dal ghiacciaio, sono state analizzate con metodi dendrocronologici e risultano avere un’età vicina ai 120-130 anni; le più giovani, presenti nella piana antistante l’attuale fronte glaciale, sono esemplari di 2-5 anni, e ben testimoniano la rapidità con cui la vegetazione sta colonizzando lo spazio liberato dal “gigante bianco” del parco dello Stelvio. Osservando la valle dei Forni e il ghiacciaio dalla terrazza del Rifugio Branca, sono ben visibili le grandi morene laterali edificate dal ghiacciaio nella Piccola Età Glaciale, le rocce arrotondate, chiamate “rocce montonate”, abrase e lisciate dal ghiacciaio quando vi scorreva sopra, molte scoperte solo nell’ultimo ventennio, e il piccolo lago delle Rosole, un bacino a sbarramento morenico ora alimentato dalle acque di fusione nivale e meteoriche. Per visitare la valle dei Forni e raggiungere la piana progaciale è possibile salire dalla strada carrabile che congiunge il Rifugio Forni (a 2100 m slm) al Rifugio Branca (a 2493 m slm) e da lì intraprendere un sentiero ben segnato, da fare a piedi, che attraverso uno spettacolare ponte tibetano ci condurrà alla fronte del ghiacciaio. Il sentiero si prende poco dopo il Lago delle Rosole. In alternativa possiamo scegliere di percorrere l’itinerario glaciologico basso che parte dalla chiusa A2A e si snoda in prossimità del Torrente dei Forni nella lunga valle deglaciata. Questa seconda possibilità permette di meglio apprezzare le peculiarità naturalistiche dell’area in un percorso non accessibile a jeep e fuoristrada.
CONOIDE DI FRANA DI SERNIO

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Dalla frazione di Baruffini, guardando di fronte, il fondovalle appare come un paesaggio ordinato e pacifico, punteggiato di orti e frutteti: l'abitato di Sernio al centro e la frazione di Cologna verso meridione, con le loro case e le loro chiese... ma i filari dei meli sono disposti a raggera, mentre le strade descrivono ampi archi concentrici, delineando la forma di un gigantesco conoide dai fianchi piuttosto inclinati: il suo apice, stretto e lungo oltre un chilometro, inizia ben dentro la gola della Valchiosa, che a sua volta si apre verso monte in un bacino idrografico ridotto, dai versanti segnati da estesi franamenti. Immediatamente a nord, un secondo ampio conoide, coalescente con quello di Sernio, presenta le medesime caratteristiche, originandosi da un altro bacino idrografico troppo piccolo, circondato da ripide scarpate. Gli abitati di Sernio e Cologna sorgono su quello che viene definito un conoide di frana: un enorme ammasso di detriti, fango e blocchi venuto giù dai canaloni retrostanti, nel corso di un quasi istantaneo evento catastrofico. I detriti del conoide hanno sbarrato la valle, creando un lago effimero a monte; i carotaggi eseguiti nel fondovalle mostrano almeno tre differenti livelli successivi di sedimenti lacustri, che corrispondono verosimilmente a tre principali frane successive, che hanno ostruito in passato il flusso dell'Adda. Potremmo immaginare un paesaggio bucolico, con piccoli pittoreschi laghi... ma non fu questo. Ad ogni frana, una sorta di stagno fangoso invadeva via via la valle, mentre nuovi materiali potevano crollare in acqua, sollevando ondate rovinose, che simili a tsunami in miniatura potevano spazzare via ogni cosa lungo le rive. Ogni volta, l'Adda alla fine riuscì a rompere lo sbarramento, aprendosi la strada attraverso la valle, e forse inondandola violentemente; da qui, si nota chiaramente al piede del conoide la scarpata subverticale scavata dal fiume. Lungo essa, i depositi di frana affiorano estesamente mostrando tutte le proprie caratteristiche.   I conoidi di Sernio sono un impressionante esempio di una morfologia ampiamente diffusa lungo questa sezione della Valtellina; essi esemplificano il comportamento tipico dei fianchi di una grande vallata alpina, caratterizzati da versanti ripidi modellati in rocce profondamente fratturate; altri esempi simili sono i conoidi di frana del Migiondo, vicino a Sòndalo, e l'imponente conoide su cui sorge Ponte in Valtellina. Di seguito il pannello illustrativo con i riferimenti del presente punto di interesse che troverete lungo il percorso e allegato in seguito.